QUEL FAR DA SE’ SOLIDALE

UNA CITTÀ n. 188 / 2011 ottobre

Un ritorno del mutualismo, che non è solo una risposta alla crisi del welfare, ma ha anche una valenza politica nel trasformare i “destinatari” di servizi in soggetti attivi e competenti; un terzo settore che non ha più nulla a che fare con il volontariato; la lezione di Osvaldo Gnocchi Viani. Un intervento di Pino Ferraris.

Pubblichiamo la conclusione di Pino Ferraris al Convegno sulla Mutualità promosso dalla Società di Mutuo Soccorso d’Ambo i Sessi “Edmondo De Amicis” e tenutosi a Torino il 29 ottobre 2010.

Nel corso della prima sessione del convegno intitolata “Che cosa ci insegna la storia della mutualità”, Marco Revelli ha parlato di questa esperienza come di una grande scuola di auto-organizzazione e come anello di congiunzione tra la cultura dei mestieri e i problemi degli ambiti di vita e, infine, come uno storico movimento di costruzione di nuove relazioni sociali basate sul principio di solidarietà. Occorre non perdere mai il senso di questa profonda ed ampia ispirazione delle società di mutuo soccorso.

Nella seconda sessione del convegno dedicata a “Crisi del Welfare ed economia civile” è stata sollevata una domanda molto pertinente: perché oggi c’è una ripresa del mutualismo? Quarant’anni fa si parlava di altre cose. Questo ritorno rappresenta soltanto un tentativo di risposta alla crisi del welfare oppure ha una valenza politica? Revelli ha affermato che il movimento operaio del Novecento ha vissuto di rendita sulla grande ondata istituente di nuove forme associative suscitate nella seconda metà dell’Ottocento: il mutuo soccorso, le leghe di resistenza, la cooperazione, le case del popolo, il partito di massa. Il Novecento non ha solo ereditato la rendita di queste risorse associative, ma a partire dalla tragica esperienza della Prima guerra mondiale esso ha anche operato una torsione burocratica, politicista e statalista del patrimonio del movimento operaio ottocentesco. Qui sta la ragione principale del mancato riconoscimento storiografico del mu tualismo: con esso si è rimossa la sua ispirazione autogestionaria, il suo radicalismo democratico, la sua affermazione delle autonomie del sociale.

Il ritorno del mutualismo significa anche e soprattutto ricerca di nuove vie della politica dopo la crisi di socialismi autoritari, di sistemi politici oligarchici e autoreferenziali, dopo le deviazioni del welfare verso forme di paternalismo statale selettivo e clientelare. Dentro lo sviluppo del volontariato, di movimenti di cittadinanza attiva, di buone pratiche di cittadinanza negli anni Ottanta e nei primi anni Novanta, si aprivano possibilità di sussidiarietà circolare (Cotturri) tra istituzioni e associazioniin grado di far emergere una sfera pubblica sociale (che non è il cosiddetto privato-sociale). La stagione dei “nuovi sindaci” prometteva l’articolazione di un welfare locale.
Tutto ciò sembrava rompere la rigidità, la selettività, la freddezza burocratica dell’offerta di welfare e aprire varchi all’intervento attivo, competente e propositivo della domanda sociale, rendendo visibili ed esigibili diritti negati o elusidei cittadini.

È possibile rompere il nesso assistenza-dipendenza? È possibile che i “destinatari” dell’offerta di welfare diventino anche attori proponenti di una domanda sociale nuova e appropriata? È possibile che l’”oggetto” delle pratiche di tutela politica e amministrativa possa entrare sulla scena pubblica come “soggetto”?
È in questa ottica che per anni con altri amici e compagni abbiamo lavorato non per tamponare una “crisi” del welfare ma per realizzare un nesso tra “riforma” ed “estensione” del welfare e i valori di autonomia sociale, le pratiche di partecipazione e di solidarietà di un neo-mutualismo. Oggi sono più prudente nel privilegiare questo rapporto neo-mutualismo e welfare. Non solo perché questo riferimento al welfare mi pare riduttivo, ma anche perché su questo terreno le strade si sono fatte oggi più strette e i percorsi quasi impraticabili.

Come si colloca il neo-mutualismo dentro quell’insieme di pratiche sociali che vengono sommariamente riassunte nella definizione del “terzo settore”?
Recentemente a Roma si è tenuto un convegno dal titolo significativo: “Terzo settore, fine di un ciclo”. La relazione era di don Vinicio Albanesi, fondatore della Comunità di Capo d’Arco; sono seguiti interventi di Giovanni Nervo, Giuseppe De Rita e Carniti. Concludeva Giulio Marcon.
De Rita in poche parole ha fissato la situazione: “Oggi il volontariato è in qualche modo uno spazio per anziani generosi, mentre la dimensione più giovanile e anche quella più settorializzata va verso un’altra direzione che approda alla cooperazione di servizi e alle imprese sociali, che sono una cosa molto diversa dal volontariato”.
Una riforma del Welfare richiede non solo la capacità di dare rilevanza sociale e politica al lato attivo, competente e propositivo della domanda sociale, come avvenne con il volontariato degli anni Ottanta e primi anni Novanta, ma esige in primo luogo un forte impegno politico generale nel rendere giusta la solidarietà fiscale, nel rendere equa la solidarietà assicurativa. Solo così la solidarietà quotidiana può evitare il pericolo di decadere in una supplenza di diritti negati.
Oggi vediamo invece che i cardini del welfare, scuola, sanità e previdenza, sono presi a picconate. Hanno spazio crescente le ibride macchine organizzative, che sono un misto di degradato parastato e di cattiva imprenditorialità, cui viene affidata l’esternalizzazione dei servizi sociali.
Cooperative e imprese sociali, fondazioni bancarie, iniziative caritatevoli e filantropiche accompagnano il progressivo smantellamento del sistema pubblico di garanzie e di protezione sociali. Il cosiddetto terzo settore non ha più niente a che fare con il volontariato e con la cittadinanza attiva. L’attuale “Forum del terzo settore” rappresenta la congiunzione trasversale tra la Compagnia delle Opere, la Lega delle Cooperative e le Fondazioni bancarie. Questa è la realtà. Il resto è letteratura.

Quando Vendola nella sanità pugliese internalizza migliaia di soci di pseudocooperative degli appalti, non attacca un sistema di solidarietà ma fa semplicemente un’opera minima, indispensabile, di moralizzazione e di garanzia di efficacia della sfera pubblica.Con ciò non dico di abbandonare la prospettiva di un welfare locale attivo, di una sussidiarietà circolare che promuova la domanda associata. Ma occorre prendere atto dello stato delle cose, degli errori fatti, ripensare il futuro e avere ben chiaro che le minoranze attive del volontariato sono nate e vivono per rendere esigibili, effettivi i diritti sociali e non per coprire ideologicamente la regressione dall’universo dei diritti alla supplenza della benevola elargizione o alla deriva del “mercato sociale”.
Detto questo vorrei riprendere un discorso più generale e di carattere storico per dire la mia opinione sul vostro dibattito circa reciprocità, fraternità, altruismo e dono.
Sul piano storico vorrei marcare con forza la valenza del mutualismo nel determinare quella rottura nella storia sociale europea determinata dalla contemporaneità genetica dell’insorgere dell’idea di solidarietà e la nascita del moderno movimento operaio e socialista. Una data simbolica: il 1848 parigino, quando i giornali operai modificano la triade “libertà, uguaglianza e fraternità” sostituendo quest’ultima con la parola “solidarietà”.

Nell’Enciclopedia di Diderot il termine “solidarietà” è illustrato in sette righe che riprendono il concetto di “obbligatio in solidum” del diritto romano. Essa è definita come “la qualità di una obbligazione nella quale più debitori si impegnano a pagare una somma che essi prendono in prestito o che debbono”.
Parecchie pagine nell’ Enciclopedia sono invece dedicate alla parola “fraternità” con una ricostruzione storica che conduce questo termine a due tradizioni:
quella dell’unità di sangue tra i “fratelli d’armi” e quella della fratellanza cristiana che unisce attorno al Padre divino.
Di fronte all’insorgere della questione sociale queste due tradizioni evolvono verso la sollecitazione morale all’oblazione dall’alto verso il basso in nome di una comune appartenenza: fratelli in quanto figli della patria, fratelli in quanto figli di Dio. Diventa la parola della carità cristiana e della filantropia massonica.
L’affermazione della “solidarietà” operaia avviene nel 1848 parigino in polemica con la “fraternità”: essa rivendica il valore pratico e ideale del “far da sé solidale” che si contrappone in quanto agire cooperativo al self help individualistico e, in quanto capacità del far da sé, all’oblazione filantropica e caritatevole.
La solidarietà tra i lavoratori esprime un loro interesse perché è fondamentale eliminare la concorrenza e impegnarsi in un’azione cooperativa che sola può permettere di superare l’asimmetria di potere che essi come singoli vivono e subiscono nel lavoro e nella società.
È un interesse che però esprime un insieme di valori, un sentimento morale radicato in un vissuto comune e si manifesta in proprie regole di comportamento e forme associative. Il concetto e l’esperienza della solidarietà stanno alla base delle molteplici forme dell’associazionismo operaio delle seconda metà dell’Ottocento: dal mutuo soccorso alle leghe di resistenza, dal movimento cooperativo alle Case del Popolo.Il termine di solidarietà richiama la cooperazione tra uguali nonostante la diversità: è un modo di confederare l’eterogeneo.
La prevalenza nel corso del Novecento di una concezione monolitica della classe operaia fa declinare l’uso di questo termine nella seconda e terza internazionale.
Non solo non c’è conflittualità tra “diritti sociali” e mutualismo, ma vi è complementarietà. L’apporto del mutuo soccorso, nella fase aurorale dell’ascesa dei diritti sociali, è indubbio.
All’interno della cerchia dell’associazione il vincolo di reciprocità (uno per tutti, tutti per uno) faceva sì che il singolo lavoratore, di fronte alle sventure dell’esistenza, per la prima volta cessasse di rovinare nella condizione del bisognoso che implorava benevolenza verso l’alto, diventando invece un soggetto portatore del diritto al sostegno solidale da parte dell’associazione.
Revelli ha accennato al rapporto tra associazione di mestiere e mutuo soccorso. Credo che la relazione tra mutualità e resistenza meriti un cenno ulteriore sia per comprendere l’evoluzione delle forme della solidarietà sia perché, a mio avviso, oggi si ripropongono rapporti nuovi tra sindacalismo e mutualismo. Il primo associazionismo operaio si sviluppa come forma di autotutela rispetto ai gravissimi disagi e alle minacce che l’industrialismo faceva incombere sulle condizioni di vita dei lavoratori (il “flagello dei quattro diavoli”: disoccupazione, malattia, infortunio e vecchiaia). Il mutuo soccorso viene prima della resistenza e dentro il mutuo soccorso si alimenta la resistenza, cioè la lotta rivendicativa negli ambiti di lavoro.
Un caso di grande ed esemplare rilevanza è la rivolta dei tessitori di Lione del 1831. All’origine di quel moto dal sicuro contenuto sindacale (i lavoratori riven dicavano un aumento delle tariffe) si collocava la presenza e l’attività della Societé du Dévoir Mutuel.

Durante i grandi scioperi biellesi del 1878, che meritarono la prima inchiesta parlamentare, fu la Società Operaia di Mutuo Soccorso dei tessitori di Crocemosso che venne sciolta come responsabile delle lotte. Insieme a questa relazione stretta si manifesta anche una differenziazione tra la forma di solidarietà mutualistica e la forma di solidarietà sindacale. La solidarietà mutualistica è una solidarietà per, quella sindacale una solidarietà contro. La solidarietà positiva della mutualità si radicava negli ambiti di vita e tendeva a una sorta di pratica dell’obbiettivo da realizzare nel basso e nel presente, mentre la solidarietà negativa dell’azione sindacale operava nei luoghi di produzione per strappare concessioni dall’alto. Con la statizzazione della mutualità, alla coppia mutualità-resistenza si sostituì la coppia sindacato-partito, due organizzazioni di solidarietà negativa di scontro con il padronato e di lotta per la conquista dello stato. L’associazionismo operaio subisce una torsione, per così dire, combattentistica, in cui prevalgono momenti di centralizzazione, di disciplina e di gerarchia.
Fabbrica e Stato occupano l’orizzonte del movimento operaio mentre gli ambiti di vita (il non-lavoro) vengono abbandonati all’amministrazione pubblica e alla cura domestica delle donne.
È nel crollo di questo paradigma che riemerge il mutualismo con le sue pratiche di solidarietà positive, con la sua volontà di costruire nel presente, contro il rin-vio messianico al futuro, con il suo sforzo di crescita delle capacità di realizzare in proprio, con il suo rifiuto della passività assistita. Oggi vedo emergere nuove possibilità di riproposizione di questo antico nesso tra mutuo soccorso e lavoro. Il movimento operaio belga della fine dell’Ottocento aveva elaborato il modello del “sindacato ad insediamento multiplo”: nel luogo di lavoro e nella società, nella rivendicazione e nella mutualità. Ad esempio il sistema Gand di raccolta e di gestione sindacale di un fondo per la disoccupazione fu un mezzo potente di mutualità che teneva legati i disoccupati al sindacato e permetteva loro di trovare una nuova occupazione decente. Il sistema Gand (riformato) funziona in modo efficace oggi in alcuni paesi scandinavi.
Il lavoro edile da sempre è stato un caso esemplare di precarietà e di dispersione dei lavoratori: la temporaneità del cantiere che nasce e muore, i frequenti intervalli di disoccupazione, la disseminazione spaziale della mano d’opera. Tra gli edili italiani la mutualizzazione della precarietà attraverso la Cassa Edile sin dai primi anni del secolo scorso è stata uno strumento di tutela mutualistica e di rafforzamento del potere rivendicativo. Nella attuale condizione di lavoro disperso, precario, non garantito, la mutualità può rappresentare un punto di coesione che, a partire dagli ambiti di vita, ricompone socialità e crea solidarie tà dentro il lavoro.
Il sociologo americano Sennet, parlando delle esperienze associative delle segretarie di Boston e dei lavoratori della comunicazione in Gran Bretagna, dice di un “sindacalismo parallelo” (che richiama il vecchio sindacalismo a insediamento multiplo) che fa leva su forme di neo-mutualismo al fine di recuperare coesione e forza rivendicativa.
La Free Lancers Union di New York è un’associazione insieme mutualistica e sindacale di artigiani tecnologici che, mentre si assicurano reciprocamente assistenza tecnica e giuridica, difendono la qualità e le tariffe del loro lavoro. Dall’inchiesta recentissima del vicedirettore de l’Unità Gianola sulla condizione operaia dentro la crisi attuale, apprendiamo che, in provincia di Brescia, Camera del lavoro e Caritas hanno attivato una società di mutuo soccorso raccogliendo tra gli iscritti della Cgil un fondo per il microcredito ai lavoratori disoccupati gestito dalla Caritas.
Questi nuovi rapporti tra lavoro e mutualità, a mio avviso, meritano molta attenzione.
Un’area nella quale i problemi del lavoro e della vita si intrecciano in modo inestricabile è quella dei lavoratori immigrati. Qui troviamo esperienze numerose e significative di neo-mutualismo. L’esperienza friulana dell’associazione “Vicini di casa” mi sembra esemplare.
Questa associazione ha trasformato l’antico patrimonio immobiliare e culturale di una rete di latterie sociali di ispirazione cattolica e socialista in un’ offerta di abitazioni per operai immigrati che lavorano nei cantieri di Monfalcone. Gestisce l’affitto di 1500 piccoli appartamenti.

Anche l’esperienza dell’associazione torinese di donne immigrate Alma Mater mi sembra che si collochi in una zona intermedia tra mutualità e lavoro.
Nuovi spazi di autogestione di risorse comuni territoriali vengono aperte dalle culture e dalle pratiche ambientaliste.
L’orizzonte si amplia.Creare esperienze di cittadinanza attiva nelle molte pieghe della società attraverso il far da sé solidaristico della mutualità significa oggi andare con fatica
contro-corrente rispetto ad un sistema e ad una cultura politica che producono passività e deleghe plebiscitarie.

Oggi è possibile creare un nesso tra la filosofia economica contemporanea della capacitazione di Amartya Sen con quello che Osvaldo Gnocchi Viani, padre della Camere del Lavoro, scriveva nello statuto della Società umanitaria di Milano: “Lo scopo dell’istituto è quello di mettere i diseredati in condizione di rilevarsi da se medesimi”.
Creare la condizioni perché le persone siano capaci di sollevarsi e di camminare sulle proprie gambe: questa antica missione del mutuo soccorso resta, ancora
oggi, il cuore dell’azione per la libertà e per la giustizia sociale.